Le serve di Goldoni
RASSEGNA STAMPA
Chi erano le serve di Goldoni? Che nomi avevano, come pensavano, come reagivano alla vita talvolta movimentata del loro padrone? L’attore-autore Alessandro Fullin immagina delle possibili risposte in Le serve di Goldoni, una commedia traboccante arguzia e buonumore. Lo spettacolo, all’aperto in piazza San Trovaso nel cuore di Venezia, comincia con gli spettatori che si trovano di fronte, sul palco, un alto pannello semicircolare con alcune finestre. Il pubblico osserva gli attori che spuntano dalle finestre mentre noi cerchiamo di spiare dentro la scenografia, un’idea di scena che suggerisce il finora irrappresentato mondo “dietro le quinte” della vita di Goldoni. Poi il pannello ruota per rivelare una scena che contiene solo una lavatrice moderna, con un gran pacco di Dixan sopra. E’ la lavanderia di Goldoni, dove quattro serve eccessive, vestite in costumi e parrucche del diciottesimo secolo, sono impegnate in un vivace dialogo sulla vita del loro padrone, i suoi successi e fiaschi teatrali, sua moglie e le sue tante amanti, gli ospiti famosi che hanno regolarmente visitato la casa.
Le molte allusioni al presente, come un’adirata telefonata dell’ultimo Giorgio Strehler, che sentiamo bisticciare sui diritti d’autore di Goldoni per una sua commedia, o una battuta su Amanda Lear nel bel mezzo di un riferimento alle celebrità femminili del diciottesimo secolo, fanno entrare in rotta di collisione presente e passato, sottolineando la nostra costante preoccupazione con lo status delle celebrità. Ulteriori digressioni sulla politica odierna intrecciate con commenti sulla Rivoluzione Francese, introducono una più mordente vena satirica. Mentre le quattro serve – due donne e due uomini travestiti (tra cui Fullin) – vivono in simbiosi con Goldoni, i cui alti e bassi loro vivono indirettamente e appassionatamente, ciascuna di loro ha occasione di rivelare il suo sé più privato. La lavatrice magicamente si trasforma in una sorta di tribunale, e ciascuna ci sale sopra per una confessione-monologo sulle loro segrete aspirazioni e frustrazioni. Di tanto in tanto il pannello ruota di fronte al pubblico, formando uno schermo dove sono proiettate sequenze filmate. Una di queste presenta un viaggio in mongolfiera, con le serve sulla strada per Parigi dove Goldoni iniziò una nuova carriera di mezza vita. Osserviamo col fiato sospeso come questo gruppo squinternato faccia un decollo da far rizzare i capelli, prima di arrivare ad atterrare nella cucina parigina di Goldoni, dove ci viene offerto un barlume della loro esperienza durante la Rivoluzione.
Il regista Andrea Adriatico di Teatri di Vita di Bologna, meglio conosciuto per le sue produzioni di Pasolini e Koltès, mostra come abbia uguale talento nella direzione di una commedia. I quattro attori, Eva Robin’s, Emanuela Grimalda, Filippo Pagotto e lo stesso Fullin – gli ultimi due portano un brillante tocco camp nell’intera faccenda – rivelano dei maestri nei tempi comici, producendo momenti di commedia spassosa con sporadiche venature dark.
(Maggie Rose, “Plays International”, autunno 2007)
La vita di Goldoni è un puro accenno, il pretesto per una commedia al sapore frizzante di cabaret firmata Alessandro Fullin. L’attore, diventato famoso con Zelig ma con una lunga militanza comica all’insegna del camp, osserva la vita del drammaturgo senza reverenze, dal buco della serratura. Anzi da molti buchi, che si aprono in una scenografia fatta da un grande cilindro bianco, pronto a ruotare e a rivelare le cucine di casa Goldoni, con una lavatrice e quattro serve intente a spettagolare. Si chiamano in causa Casanova, le tragedie, la passione per il gioco d’azzardo del commediografo, amori e amorazzi, le Mémoires e la voglia di dimenticare. Con tic e ritmi d’oggi, con battute frenetiche, si raccontano vizi e virtù dell’autore e i suoi tempi sull’orlo della rivoluzione, che scoppierà con lancio verso il pubblico delle famose brioches di Maria Antonietta. Il testo rimane un canovaccio per ammiccamenti, doppi sensi, raffinati slittamenti semantici e di situazione e risate di grana grossa. Il discorso sulla maschera entra per la via, modernissima, delle metamorfosi delle identità sessuali. L’inventore della riforma del teatro è rivisitato attraverso quattro serve, diversamente en travesti: oltre a Fullin, implacabile nella sua debordante comicità in falsetto, un barbuto, efficace Filippo Pagotto in vesti donnesche, una Emanuela Grimalda che tiene le fila con solida concretezza contadina, e Eva Robin’s, ambigua sessualmente, fintamente imbranata, elegante in vesti dimesse, una muta che si esprime per boccucce, mossettine, occhiatacce. Maldicenze e sogni d’amore mutano a vista nel grande mulino della scena che, girando, rivela ambienti e situazioni sorprendenti, per diventare, poi, uno schermo su cui scorrono le immagini del viaggio a Parigi in una vecchio Topolino o quelle di nuotate alla Esther Williams nelle ‘piscine’ di Versailles. Il regista Andrea Adriatico, che con Fullin aveva già smontato il mito di D’Annunzio a bordo di una Cinquecento, si scatena con invenzioni che assecondano il gioco dei bravi attori, senza mai forzare né rimpolpare la natura di esile canovaccio del testo.
(Massimo Marino, “Hystrio”, ottobre-dicembre 2007)
Inutile aspettarsi fedeltà al canone goldoniano, non soltanto perché in teatro non può esistere filologia, ma soprattutto perché la sfida lanciata dal festival consisteva proprio nel rivisitare Goldoni al fine di trasformarlo in fonte d’ispirazione per la creazione di nuovi drammi, calati nelle problematiche teatrali e sociali odierne in Italia e all’estero. Autore e attore di un cabaret colto en travesti, Fullin ha fatto incursione nella biografia e nell’opera di vari artisti per montare gli sketches di cui si sostanziano i suoi testi-spettacolo. Si pensi, ad esempio, a L’auto dei comizi (2003) che dissacra l’impresa di Fiume del Vate nazionale. In Le serve di Goldoni, Fullin si ispira alle Mémoires che Goldoni scrisse in Francia per poi re-inventare alcuni episodi della vita di Sior Carlo, dagli anni dei successi veneziani al crepuscolo parigino. Il punto di vista però è quello di tre serve pettegole tutte intente a spiare l’esimio padrone dal buco della serratura. Significativamente la scena si sostanzia di un paravento semicircolare cosparso di buchi dai quali gli attori strizzano l’occhio agli spettatori, a loro volta sollecitati a curiosare attraverso le aperture i repentini e continui cambi di scena.
Gli spazi svelati dalla struttura girevole sono ora la cucina di casa Goldoni, ora il salone della sua dimora in Francia, ora la platea di un teatro parigino dove le serve assistono ad una rappresentazione noiosa e mortifera. L’impianto dello spettacolo è fortemente metateatrale. Basti pensare che due delle serve sono interpretate da attori en travesti (l’esilarante Fullin e il barbutissimo Filippo Pagatto) affiancati da una quarta servetta muta di nome Adama, interpretata da Eva Robin’s. Le “ciacole” delle serve cono caratterizzate da una comicità dirompente, dissacratoria ma mai volgare. Spettegolano sulle amanti del padrone, si confidano le loro avventure amorose (palesemente inventate), riportano le scene isteriche di una famosa prima attrice che si era messa in testa di recitare parti drammatiche, recitano loro stesse la scena clou di un drammone ridicolo, immaginano di vivere alla grande nella Parigi alla moda delle loro fantasie e, infine, lamentano le tribolazioni del padrone in terra straniera. Insomma, le serve vivono di luce riflessa, si appropriano come sanguisughe delle avventure del padrone per darsi un senso. Nonostante gli eccessi di comicità, lo spettacolo si vena di malinconia anche perché gli attori-personaggi lasciano intendere al pubblico la drammatica ambiguità della loro esistenza: “Non sono un uomo, non sono una donna: sono soltanto una maschera” sospira una delle servette, alludendo con discrezione alla problematicitˆ dell’identità omosessuale che viene avvicinata a quella dell’attore il quale si realizza immaginando di essere o, addirittura, diventando un altro.
La regia di Adriatico scoppietta di idee e di soluzioni sceniche di grande efficacia e garantisce alla azione drammatica un ritmo mozzafiato. La natura episodica della pièce è messa in evidenza da una sorta di montaggio cinematografico delle scene in cui veri e propri filmati vengono proiettati sul paravento a mo’ di dissolvenza. La vivacità e l’energia degli attori, la loro gestualità aggraziata e la loro raffinata ironia aggiungono brio e leggerezza alla pièce.
(Susanna Battisti, “Visum.it”, 3 settembre 2007)
Ci voleva un’assortita compagnia, glbt di fatto – e anche, in minoranza, straight – a dissacrare il ritratto di Carlo Goldoni, ingiallito nell’immaginario collettivo e normalizzato da incrostazioni conformistiche e scolastiche. (Analoga operazione, sia detto per inciso, s’attende anche per altre glorie nazionali, ammuffite e sequestrate dal pervasivo e antropologico conservatorismo italiano).
Ed eccole, dunque, le coraggiose del nuovo teatro: Le serve di Goldoni di Adriatico-Fullin, nuovamente in coppia dopo aver dissacrato il macho D’Annunzio nella pièce L’auto dei comizi (2003). Sbarcato il 23 luglio a Venezia, al Festival più italiano-italiano che ci sia, la Biennale Teatro diretta dal potente e furbo Maurizio Scaparro, lo spettacolo gioca in allegria e ironia, quindi più seriamente di altri seriosi sepolcri imbiancati à la page, sulla vita e le opere del commediografo veneziano. Il testo originale di Fullin, che ha insieme la sua forza e la sua debolezza nella naturale derivazione cabarettisco-televisiva, incline cioè alla gag veloce e ‘disimpegnata’, è un canovaccio di lazzi e frizzi da commedia dell’arte. Eppure, più che goldonianamente riformato, dal corpo a corpo con la tradizione il testo si impone come modernamente contaminato: dalla cultura mass-mediale, dall’instabilità delle coordinate spazio-temporali, dalla confusione di genere, dalla lieve e malinconica gayezza, dalla solitudine delle maschere – non personaggi definiti ma appunto figure retoriche, e di un nuovo conio – sempre affamate d’amore.
Ircana, Germana, Adama e Anselma sono le quattro fantasmagoriche serve di messer Goldoni, impegnate a far emergere, del commediografo veneziano, un’idea del suo teatro e del suo tempo, così simile al nostro presente per una certa pruderie sessuale, per la fascinazione dell’esotico e dell’altrove (le smanie per la villeggiatura, e quelle per l’avventura, per la fuga: a Parigi, nel gioco d’azzardo, nelle sedute spiritiche, verso le luci di una ribalta sempre preclusa ma ambita dal basso e orizzontale popolino). Il regista, poi, rendendo omaggio al miglior Strehler nella prevalenza del bianco delle luci, della scena e dei costumi, non manca di portare avanti il suo discorso sul pubblico e sull’uso drammaturgico dello spazio scenico, optando per una struttura claustrofobica per gli attori (un “grande barattolo”, un “quinto attore” per dirla con Fullin), con la quale essi si relazionano in maniera dinamica e quindi conflittuale. E il discorso metateatrale di Adriatico prosegue, in filigrana, ironizzando su certa ricerca teatrale afona e sterile, ma anche (gustosamente) su se stesso e infine riproponendo un modello di integrazione teatro-cinema che, se nel Ritorno al deserto (2007) godeva di perfezione formale e coerenza drammaturgica, qui appare – nei coloratissimi inserti video – un po’ forzata e posticcia. Molto abile si riconferma invece nelle invenzioni sceniche, prima fra tutte l’introduzione della ‘quarta’ serva, una favolosa Eva Robin’s muta, come dire ancora e sempre ‘diversa’, una ‘cosa’ informe, come l’apostrofa un’Ircana-Fullin a sua volta irresistibile nel proprio stile ‘son qua a recitar per sbaglio’. Bene anche la donna-donna Emanuela Grimalda e il giovane Filippo Pagotto, serva baffuta e pelosa ma senza cedimenti all’effeminatezza.
(“Queerway.it”, 2 agosto 2007)
Che ci fa una lavatrice nel Settecento? E’ uno dei totem dei nostri giorni precipitati nelle Serve di Goldoni, uno spettacolo che racconta con tic e ritmi odierni gli amorazzi e i vizi dello scrittore e i suoi tempi sull’orlo della rivoluzione. Il testo di Alessandro Fullin è un canovaccio per battute scoppiettanti. L’inventore della commedia riformata è rivisitato attraverso le maschere di quattro serve en travesti, oltre a Fullin, implacabile nella sua comicità in falsetto, un barbuto, efficace Filippo Pagotto, una terragna Emanuela Grimalda ed Eva Robin’s, la muta che si esprime per boccucce, mossettine, occhiatacce. Maldicenze e sogni d’amore nascono in un grande cilindro bianco che, ruotando, rivela ambienti e scene sorprendenti. Diventa poi uno schermo su cui scorrono le immagini del viaggio a Parigi in una vecchia Topolino o quello di nuotate alla Esther Williams nelle “piscine” di Versailles. Il regista Andrea Adriatico si scatena con invenzioni divertite e divertenti, salutate alla prima bolognese da un caldissimo successo.
(Massimo Marino, “Corriere di Bologna”, 1 agosto 2007)
(…) Con “Le serve di Goldoni” di Alessandro Fullin, la scommessa era, qui, francamente rischiosa. Fullin è una vedetta della televisione italiana, dove incarna, di regola, en travesti, un’archeologa che ricostruisce una civiltà nascosta che assomiglia ferocemente alla nostra. Appassionato di Goldoni, egli ha immaginato con Andrea Adriatico una commedia sui personaggi delle domestiche, che impersona egli stesso con due partner, sullo sfondo di arie di Lulli, di Trénet e di qualche re del pop. La sua fantasia che, in fin dei conti, non ha una grande relazione con l’argomento, è uno scoppio di riso come se lo può permettere il paese di Arlecchino. (…)
(Gilles Costaz, “Les Echos”, 30 luglio 2007)
(…) Si scherza sullo spunto di episodi più o meno noti della biografia goldoniana, si gioca alla mimesi della mentalità servile, si ricama sui luoghi comuni del Settecento, da Casanova alle brioches di Maria Antonietta, si spalma su tutto grossolana comicità verbale e greve erotismo. Fullin non rinuncia, soprattutto nei primi episodi, a un fuoco di fila di battute in cui si mette in gioco in prima persona, alludendo a sé stesso e chiamando in causa il signor Goldoni con lazzi irriverenti che rompono il piano di finzione delle quattro serve così da stabilire multipli canali di comunicazione con il pubblico esilarato. E’ vero che col procedere dell’azione, articolata in svelti quadri, questa molteplicità sfuma alquanto, finché, verso il finale, la sequenza delle scene diventa indistinta, forse casuale, ma a tener vivo lo spettacolo fino all’ultimo ci pensano la scatenata mobilità degli attori e la gara dei quattro diversi istinti comici in scena: con Fullin, Emanuela Grimalda, Filippo Pagotto e Eva Robin’s, sorprendente raisonneuse muta. Bravissime tutte.
(Nicola Zuccherini, “Lo spettatore”, 30 luglio 2007)
(…) La commedia-non-goldoniana dedicata a Goldoni è, a tutti gli effetti, una commedia brillante, pur con frequenti scivolamenti verso il cabaret. Nella messinscena c’è però spesso l’adozione di tempi teatrali spezzati, nei quali la verve martellante delle battute un po’ si attutisce. E un grande cilindro bianco che occupa la scena, ruotando poi (su una rotaia) per trasformarsi in una unica quinta, finisce per essere ingombrante nell’eccesso di giravolte.
Dal palcoscenico escono molto bene i protagonisti, le quattro serve: oltre allo stesso Fullin, la straripante Emanuela Grimalda, un lezioso Filippo Pagotto e la guest star Eva Robin’s che, senza parlare (il suo personaggio è muto), mostra una efficace capacità espressiva. E sono davvero quattro donnine scatenate, che tra un bucato in lavatrice e lo spignattare sui fornelli (a gas) si danno al pettegolezzo sulle avventure di paròn Goldoni, confessano avventure focose di gioventù (con Casanova e fin con De Sade), vagheggiano la villeggiatura e stravedono per la corte di Francia, dove accompagneranno il commediografo.
La mano di Adriatico si vede invece in alcune scelte visive (il mix con i video divertenti proiettati sul cilindro bianco) e nella propoensione alla provocazione (pur sempre prevedibile), ma concede ben poco alla sperimentazione.
(Giambattista Marchetto, “Il gazzettino”, 26 luglio 2007)
grazie al sole e ai girasoli umbri,
e grazie di cuore a emanuela agostini, francesca ballico, arcangela gabriella, fabio umani, mongolfiera management.
a f
Le serve di Goldoni
di Alessandro Fullin
uno spettacolo di Andrea Adriatico per Teatri di Vita
con Alessandro Fullin, Emanuela Grimalda, Filippo Pagotto
e con l’apparizione di Eva Robin’s
cura e aiuto Daniela Cotti
produzione Monica Nicoli
in produzione Maria Concetta Mercuri, Valeriano Pesante
scene e costumi Maurizio Bovi, Andrea Cinelli
con l’assistenza di Eros Paradisi
oggetti di scena Pentole Ballarini, Freak Andò
suono Alessandro Saviozzi
luci Matteo Nanni
macchine Davide Di Pede
ufficio stampa Giampiero Leoni
sartoria Isabella Sensini
grafica Kitchen
fotografia film Raffaella Cavalieri per Cinemare
una produzione Teatri di Vita-La Biennale Teatro
con il contributo di Comune di Bologna – Settore Cultura, Regione Emilia Romagna – Settore Cultura, Ministero per i Beni e le Attività Culturali