Parole Jelinek. Miti d’oggi

Parole Jelinek. Miti d’oggi

Miti d’oggi. Più miti che oggi. Miti come un aggettivo che suona come una qualità e perde sempre più senso nella nostra furia contemporanea. Un aggettivo che, al singolare, è forse quello più appropriato per descrivere l’animo della scrittrice, quella sì d’oggi, che risponde al nome di Elfriede Jelinek. Una donna, mite. Giocando con le origini greche di “mito” e quelle latine di “mite” Elfriede potrebbe scrivere pagine e pagine. Divertendosi a scomporre e ricomporre il senso di una storia. E quindi dell’oggi. Amata e detestata, capace di scatenare le furie di una politica aggressiva come quella di Jörg Haider, il governatore della Carinzia che strapazzò l’Austria degli anni ’90 e 2000 guidandola verso un ritrovato spirito nazionalista di impianto liberale, Elfi è forse la più accorata “testimone guida” dell’Europa post pasoliniana. In un tempo che spinge l’essere miti all’esilio, ecco che la sua scelta non ha potuto che essere quella di stare “in disparte”. Come lei stessa ribadì in occasione del suo discorso alla cerimonia in cui le venne attribuito il Premio Nobel, un premio ricevuto non senza polemiche agguerrite proprio tra quegli stessi intellettuali spesso bersagliati e bistrattati dalla sua penna. Post pasoliniana non per caso, non per moda.

Elfriede Jelinek è incredibilmente dentro il tracciato di chi considera, proprio come Pasolini, l’essere mite testimone della storia, un ruolo vero e proprio con chiare funzioni sociali. Solo che tra i favolosi anni ’60 dello scomodo intellettuale italiano e gli anni ’90 della beffarda austriaca è passata una generazione punk condita da una favola postmoderna. Per questo è impossibile prendersi davvero sul serio e soprattutto sperare che quella funzione di intellettuale guida possa davvero trovare un suo senso e una sua legge di sopravvivenza. L’intellettuale secondo Elfi non ha più nulla di eroico e nessuna sfida possibile. Ha perso già la propria natura nell’attimo stesso in cui, con mitezza, si è definito tale. Così diventa evidente che essere testimoni e leggere l’oggi è diventato un “mestiere di risulta”, appannaggio di un self-made-concept condito di consumo abnorme del mezzo televisivo e un’ansia agorafobica che impedisce il contatto troppo ravvicinato con ciò che si è chiamati a scrutare senza pietà. La sola cosa che resta, e in questo Elfi è terribilmente incredibilmente pasoliniana, è una consapevolezza rara del suo tempo e una chiarissima percezione del suo ruolo, tanto da farle scrivere:

La fila in cui mi trovo io in fin dei conti è sfoltita da malattie, umiliazioni, sconfitte. Un incessante essere offesi. Irresponsabilità. Non mi oppongo più a nessuno, men che meno ai miei vicini, che non desiderano neanche più aumentare il loro numero. (cfr. Sport. Ein Stück, 1989)

Per questo Elfriede Jelinek è un’urbanista delle emozioni. Che scommette ogni volta sulla possibilità che qualcuno decida di buttarsi nel traffico delle sue parole, un traffico da ora di punta, da ingorgo, da martirio annunciato, sperando che i malcapitati decidano di buttare un occhio attorno a sé durante quelle interminabili code e scoprire una città nuova. Ecco il primo indirizzo che ci offre allora: guardare da lontano. In genere chi scrive si affanna a rivendicare il diritto all’onnipresenza e all’onniscienza. Ho detto io, tutto il tempo (cfr. Das Lebewohl, 2000). Elfi dice invece “vado a dare un’occhiata”. Tutto quello che porta come testimonianza nelle sue opere è frutto del punto di vista sulle cose di chi, appunto, vede la vita da lontano. La vita da lontano, la politica da lontano, le emozioni da lontano, l’esperienza da lontano. Usa la televisione per conoscere il mondo. Analizza la storia come fosse l’insieme di un universo da passare al microscopio. E il suo microscopio è la televisione. Per questo ingurgita la televisione, se ne nutre come ci si può nutrire bulimicamente di un cibo pronto e senza la possibilità di una vera scelta. Proprio questa visione “da lontano” le garantisce una continuità di analisi e uno sguardo emarginato e crudo dell’esistenza. Non ha alleanze da stringere, non ha questioni da rispettare. Non ha politiche da perseguire, né patronati da soddisfare. Vive di quella libertà che solo l’esilio autentico dalle questioni del mondo può offrire. E un pizzico di follia.

Secondo indirizzo delle sue meravigliose strade intasate di parole è l’appassionarsi all’archetipo della cronaca. In tutte le opere di Elfi il protagonista non è mai quello annunciato. Il titolo non è mai foriero di una reale intenzione. È un depistaggio, bello e buono. Un “altro”. Molto ci sarebbe da dire sul concetto di “altro” nel mondo di Elfi. Altro è l’identità alternativa. Altro è il rinforzo della parola. Altro è la possibilità di uno sguardo non oggettivo e non esaustivo. Altro è il potere e la vacuità del possedere un punto di vista. Così un fatto può essere quello e quell’altro. Così una storia può essere quella e quell’altra. Così una serial killer può essere umana e una ladra di yogurt un’eroina contemporanea. Tutto dipende dall’angolazione, dallo sguardo, dall’“altro” modo in cui la vita può chiamarci a raccolta. E non ci sono elementi che chiamano all’“io” esclusivo, freudiano. Ci sono tanti “ii” e tante “ia”. Nutrirsi della cronaca, per offrire un altro sguardo sulla vita, non può essere casuale e fuggevole. Occorre conoscere tutto nel dettaglio. Indagare, a fondo, nell’universo di chi viene catturato in un giornale, una trasmissione televisiva, un evento sportivo. Così la nostra testimone guida post punk fa esattamente il lavoro di ingurgitare tutto il possibile. E restituirlo, macerato, digerito, in quel fiume di strade che sono parole in coda, frettolose di tornare ognuna al proprio indirizzo. In questo è davvero unica: ogni singola riga, apparentemente frutto di fantasia, è un doveroso omaggio a un’indagine quasi poliziesca. Conosce ogni elemento dei suoi miti. Non parla mai a sproposito. Non è mai “poco documentata”. Anzi. Sarebbe proprio da definirla enciclopedica. È impressionante la maniacalità con cui insegue la cronaca e se ne serve per restituire il perché di una scelta.

Ecco allora tornare ad affacciarsi il senso della parola “miti d’oggi” e decidere di intendersi su cosa Elfi concepisca come mito. Per mito intende Faust, certo, e Mefistofele, ma lo confonde con un padre padrone che rinchiude sua figlia in una girandola di orrori scovati nelle pieghe della cronaca di oggi. Per mito intende l’inno allo sport, grande valore d’Austria e del mondo sano, ma per raccontarlo usa Andi, il povero culturista con corpo disfatto dall’abuso di farmaci. Per mito scruta la Pentesilea di Kleist, ma la inquadra tristemente in un salotto televisivo alla Maria De Filippi. Così rivive il mito d’oggi, annegato nei fiumi di parole in coda verso indirizzi sconosciuti.

La meta non è finalizzata. Forse semplicemente non c’è. Come non c’è speranza di ascolto, autentico. La parola nasce e cresce. Racconta sì il mito, ma quello che sembra cronaca diventa pathos. E quello che sembra banalità diventa asfalto su cui correre. E c’è di più: che si tratti di rivisitare Jacqueline Kennedy o Marilyn Monroe, occorre non aspettarsi mai la mistificazione che il mito offre di sé. Tutt’altro. Il mito viene sempre ricondotto a pasta primaria, a umanità dolente. Non c’è spazio per la celebrazione. Non c’è spazio per la meraviglia. Tutto è vicino, prossimo, raggiungibile. Grazie allo studio minuzioso della preda. E il fiume di parole in piena accorda un sentimento di prossimità. I nostri miti li possiamo sfiorare, sentirli accanto, possiamo diventarne amici o nemici. Storditi dal senso di un mondo che si ostina a non voler guardare oltre. Storditi dalla mancanza di un’ecologia della vita e della natura, che è un indirizzo ancora nelle opere di questa selvaggia pianista alpina. Tutto corre verso il silenzio. Ed è qui il paradosso. Il frastuono dell’immensità del linguaggio si stempera all’improvviso, come una coda di automobili che d’incanto si libera. E di quelle parole resta solo un profondo silenzio. È forse questo il vero mito d’oggi? Così si può chiudere e capire un suo messaggio. Riflettere un attimo sulle parole, ma questo viene già dopo la fine… (cfr. Sport. Ein Stück, 1989)

clicca qui per leggere l’articolo su Doppiozero, 13 febbraio 2015