Pasolini, un altro teatro è possibile
Di Pasolini ho messo in scena un solo lavoro, cioè Orgia, nel 2004. In realtà, agli inizi degli anni Novanta, quando cominciai a fare i primi passi in teatro, le prime tre o quattro cose che feci, in particolare un ciclo dal titolo Le religioni del mio tempo, furono piccoli lavori con miei testi dedicati proprio a Pasolini: una dedica, appunto, perché quello, per me, non era ancora il tempo di incontrarne la parola. Si trattava quindi di lavori con i quali, in qualche maniera, mi mettevo in gioco come autore e nei quali contemplavo Pasolini come un riferimento, un orizzonte culturale. Ma Pasolini è un riferimento necessario anche per un regista omosessuale, che si confronta con un autore che della sua omosessualità ha fatto una chiave importante della sua opera. D’altra parte, proprio Orgia tocca, tra l’altro, in maniera molto profonda questioni legate alla sessualità a tutto campo, e non solo a livello simbolico: cioè, come si desidera, chi si desidera, in quale momento, in quale contesto.
Quanto alla teatralità del suo teatro, mi sembra un non problema. Nel momento in cui scelgo di mettere in scena un qualsiasi testo è perché lo considero a tutti gli effetti un’opera teatrale: faccio riferimento al teatro e alla sua teatralità. È esattamente ciò che accade con Pasolini: la sua tragedia è un’opera profondamente teatrale, e come tale l’ho trattata, come un copione. Come autore di teatro, Pasolini si pone sicuramente il problema, comune a ogni drammaturgo, della rappresentabilità delle sue opere, ma lo fa in termini di rottura e di contraddizione. Scrive il Manifesto per un nuovo teatro che dovrebbe dare determinate regole, ma poi lo tradisce con una teatralità per me così evidente e necessaria; indica di disprezzare l’attore di tradizione e il suo birignao, e intanto mostra di amare l’attore e il teatro, e quindi di voler rifondare una nuova tradizione del teatro. Anche questo continuo gioco contraddittorio, secondo me, rende forte il suo teatro.
Insomma, molti anni dopo il momento in cui avevo cominciato a fare teatro, quando molte cose per me si erano consolidate ed era iniziata anche parte del mio percorso nel cinema, ritornare a Pasolini è stato come prendere le mani e la testa e impastarle in un’opera che era un’opera di teatro a tutti gli effetti.
Io non penso affatto che ci sia del superfluo nelle tragedie di Pasolini, perché, analizzando ad esempio tutto il testo di Orgia, non è possibile per me tagliare una sola parola, dalle straordinarie descrizioni dei paesaggi friulani all’elencazione dettagliata degli atti sado-masochistici. Descrizioni, appunto, non azioni. Questo costante richiamarsi al “ti farò questo”, “ti picchierò” e così via, è una continua narrazione, che è esattamente il meccanismo borghese del relazionarsi, costruito e fondato, appunto, sul linguaggio. Il teatro di Pasolini è un teatro borghese, legato alla parola, perché è la borghesia stessa a essere legata alla parola, a problematicizzarsi attraverso il racconto e la narrazione: e quindi, la tragedia della borghesia deve essere per forza una tragedia di parola. Tutto quello che è, da un certo punto in poi, relazione interpersonale in ambito borghese si fonda prima di tutto sul codice culturale del linguaggio. Pasolini utilizza questo meccanismo e, questa è la sua particolarità, lo fa diventare materia teatrale molto calda. Ed io penso che questo, tradotto in un codice scenico di un certo tipo, arrivi in maniera molto forte e provochi adesioni emozionali e affettive.
Però ritengo anche, almeno secondo la mia esperienza pratica nella messinscena dell’opera, che la verbosità di Orgia sia voluta e costruita anche per ottenere un effetto contrapposto alla fisicità di ciò che esprime il testo, cioè l’elemento sado-masochista. È come se l’Uomo e la Donna fossero impotenti ad agire e quindi cerchino di protrarre all’infinito quell’azione, ma attraverso il linguaggio.
Nel momento in cui ogni azione viene raccontata e non viene invece fatta, inevitabilmente si alimenta un discorso di linguaggio, molto spiazzante. Quando l’attore racconta anziché fare, e dice quello che farà e quasi non fa quello che dice, enfatizzando la parola e deprimendo l’azione, si innesca un meccanismo sul linguaggio che è molto particolare, ma non per questo non è teatrale.
Orgia, per me, non era solo un’opera di teatro, ma impostava anche un altro teatro. Basta ascoltare Pasolini stesso: “Io cerco un altro spazio, perché cerco un altro pubblico”. Così mi sono messo anch’io a cercare un altro pubblico, anche se in maniera diversa da come intendeva Pasolini: un pubblico che avesse un tipo diverso di relazione con lo spettacolo. E infatti mi sono accorto che il teatro di Pasolini richiede un particolare legame tra l’ascolto e la presenza, tra la parola e la fisicità, che io ho cercato di affrontare e risolvere sottolineando l’anomalia di questa relazione con il pubblico.
Così, ho raccontato Orgia inserendo lo spettacolo dentro un tunnel stretto, con gli spettatori che si trovavano quasi in prossimità degli attori, con una fisicità molto forte espressa dagli attori, ma anche con la fisicità del pubblico, vicinissimo agli attori e parte stessa dello spazio e dell’azione. L’idea era anche quella di estendere al pubblico la condivisione dell’orgia di parole e relazioni sado-masochiste: tutti insieme nello stesso spazio e nella stessa storia. Però ho mantenuto una fedeltà e un rigore assoluto al testo e, quindi, senza la ricerca di una velocizzazione esasperata della parola o di un rallentamento o straniamento del linguaggio. Insomma, uno spettacolo con una forte fisicità combinata con la fedele enunciazione del testo di Pasolini all’interno di uno spazio inconsueto.
Non credo che le mie scelte registiche per Orgia possano essere accusate di arbitrarietà. Esattamente come credo che un testo viva della sua letterarietà autonoma e del fatto che possa essere coltivato e letto in forma di libro, così penso che sia giusto che un regista traduca, secondo la propria visione, un testo in spettacolo, che è un’altra cosa rispetto al testo. La testualità in sé è una cosa molto diversa dal codice che permette a un regista di interpretarla, naturalmente nel segno del rispetto della sua visione, del suo pensiero di un’opera. In Orgia (come è mia abitudine quando tratto testi, anche letterariamente complessi, con assoluta fedeltà e senza tagli o rimaneggiamenti) non ho toccato una riga. Ho cercato invece di ricostruire quella che, secondo me, era una storia: la storia di due personaggi borghesi, che vivono dentro al tunnel della loro relazione interpersonale e sessuale. Ecco, allora, materializzato quel tunnel, che aveva al suo centro, per tutta la lunghezza, un lungo letto-catafalco, a ridosso (a meno di un metro) dalle sedie degli spettatori, con gli attori che si muovevano, tra il letto e le gambe degli spettatori, con tutta la loro verbosità e con tutta l’inevitabile, estrema fisicità dei loro corpi.
Devo dire che, per fortuna, questo spettacolo ha girato molto e, curiosamente, anche all’estero. Un altro pubblico, incollato alle parole, spesso col libro sulle ginocchia e il desiderio di un altro teatro pensato negli anni ’60 e giunto prepotentemente fin qui.