Sesso, genere e contesto
L’altra sponda di forma e funzione nel pensiero sulla città e sul territorio
…da quando non ho lavoro ho segnato tutte le zone che quei porci ci hanno destinato sulle loro piantine, le zone dove ci chiudono dentro con un tratto di matita, le zone di lavoro di tutta la settimana, le zone per la moto e quelle per rimorchiare, le zone per le donne e le zone per gli uomini, le zone per i froci, le zone della tristezza, le zone delle chiacchiere, le zone del dispiacere e quelle del venerdì sera, le zone del venerdì sera che ho perso da quando ho mischiato tutto e che vorrei ritrovare per quanto ci stavo bene…
bernard-marie koltès,
la nuit just avant les forêts
PREMESSA
Quanto la sessualità e il genere abbiano condizionato e condizionino la storia dell’architettura è una questione che non è mai stata accolta e indagata con l’attenzione che a mio avviso meriterebbe.
Come in molti altri settori considerati di base fortemente “scientifici”, immaginare che possa esistere un condizionamento ideativo e progettuale determinato dal genere, o più ancora dalla sessualità, è spesso considerato un’eresia.
Al pari di come spesso venga considerata un’eresia la pratica di una professione a partire da un vissuto e non da una preparazione tecnica. Chiunque obietterebbe che un medicǝ è e resta un medicǝ a prescindere dalla propria sessualità, dal proprio colore della pelle, dal proprio credo politico o religioso.
Chiunque in prima battuta sarebbe portato a sostenere che esistano solo buoni o cattivi architettǝ, nulla più.
Eppure già a partire dalla forma maschile singolare delle nomenclature professionali c’è qualcosa che rimanda a questioni velocemente liquidate e ritenute eccessi ideologici: li chiamiamo medici, architetti, ingegneri…
Nomi indeclinabili, perentori, definitivi.
Potrebbe sembrare che a questo punto la questione sia meramente legata ad un concetto di rivendicazione “femminista”, liquidabile con la sola assunzione, quando possibile, della variante femminile del termine.
Eppure andiamo sempre più nella direzione di una società liquida, apparentemente con confini tra i generi labili e indistinguibili e sessualità non più strettamente binarie.
Questo breve scritto punta invece a dimostrare come in quella variazione sintattica, per la quale d’ora in avanti assumeremo un termine “insignificante”, la scevà, proprio per individuare con precisione un “significato” che abbracci e comprenda una entità multiforme e variegata di espressioni esistenziali, abbia e abbia avuto un peso sostanziale nella storia della creazione architettonica e di come oggi il traguardo debba essere quello di non attribuire un genere definitivo e monodiretto già a partire dalla declinazione terminologica che contraddistingue una professione.
Convinti del fatto che dietro un nome si nasconda sempre un contenuto.
Dunque crediamo sia giunto il momento di attribuire un giusto ruolo alla declinazione di genere nel processo creativo dell’architettura.
Ed in questo quadro proveremo ad inserire aspetti che puntino a mostrare come nel contesto concreto della pratica dell’architettura entrino in gioco un insieme di sollecitazioni di natura etica, ambientale, sociologica, antropologica che ricomprendono fatti e questioni che non possono mai prescindere dall’identità e anche dalla sessualità di un professionistǝ coinvolto.
Partire dall’”insignificanza” del genere è di fatto un modo per attribuire al genere una libertà di azione e un respiro inclusivo che è l’obiettivo della nostra indagine, senza per forza doversi sbilanciare a favore della maggiore o minore “significanza” di un genere prevaricante, atto che considereremmo riduttivo nell’analisi del processo.
ARCHITETTO, una “o” prescindibile
La voce del vocabolario dell’enciclopedia Treccani non ha dubbi: esiste un professionista e si chiama Architetto.
Se provassimo a cercare la versione femminile del termine, “architetta”, ecco che scopriremmo solo un curioso rimando alla voce “gentrificazione”, termine che nell’ambito del processo analitico urbanistico è di primaria importanza ma che salta fuori solo perché nella descrizione include il termine architetta per caso. Ma il genere non è un caso.
E’ un dato storico inconfutabile che l’”architetta” sia un termine non accreditato.
Su tutte basti pensare a due personalità, cresciute all’ombra dei loro colleghi uomini, che hanno di fatto contaminato a tal punto le personali carriere da divenire sfondo pur essendo protagoniste.
In primis Charlotte Perriand, architetta e designer francese, ebbe un ruolo decisivo nella creazione degli arredi di Le Corbusier, nel periodo tra il 1927 e il 1937, durante il quale anche molte innovazioni messe in atto dal celeberrimo progettista furono concepite con l’influenza silenziosa dell’artista.
Questioni ben note a chiunque frequenti la storia e l’opera di Le Corbusier. Più recente è invece il caso di Doriana Mandrelli, architetta, che deve associare al suo il cognome del marito per poter essere collocata e riconosciuta: Fuksas. Protagonista di tutta la produzione dello studio Fuksas degli ultimi decenni, all’ombra della archistar, ecco cosa dichiara in un passo saliente di una recentissima intervista rilasciata alla rivista MarieClaire:
Quando dice “noi” cosa vuol dire?
Mio marito e io lavoriamo insieme da 40 anni. Siamo complementari, io più attenta ai dettagli, anche per i miei studi in Storia dell’arte. Purtroppo, poi, spesso, viene fatto solo il suo nome. Un problema di genere, difficile da eliminare. I committenti quando entrano in studio quasi tutti cercano Massimiliano. Solo Giorgio Armani, dopo il primo incontro, ha chiesto sempre di me: siamo diventati grandi amici. (…)
Torniamo ai problemi di genere in architettura. Lei fa parte delle Rebel Architette…
Sì, un gruppo di agguerrite architetteche sostiene equa visibilità e partecipazione alla professione da parte delle donne. Ma non è ancora abbastanza. Siamo ancora poche. Ad esempio, se le chiedo di fare cinque nomi di architetti li cita in scioltezza, ma sa fare lo stesso con cinque donne… Eppure sono tante quelle che fanno lavori eccelsi.
Dunque se la Treccani non ha ancora vissuto questo minimo aggiustamento di declinazione, mentre riconosce quello d’uso comune (guarda caso) per termini professionali che classificano mestieri molto più umili come “contadina” o “ dattilografa” o “segretaria”, l’ordine dellǝ architettǝ di Bergamo ha finalmente autorizzato a pieno titolo l’uso del termine architetta in tutte le comunicazioni ufficiali e lanciato già dal 2010 il progetto Archidonne.
Un piccolo passo, ma al contempo la testimonianza del fatto che esista un problema da risolvere.
Che i tempi siano maturi lo dimostra anche che, in occasione della recente assegnazione del premio dell’Istituto nazionale di architettura del Lazio all’architetto Massimiliano Fuksas, si sia scatenato il web con l’hastag #timefor50 per chiedere di condividere quello stesso riconoscimento con la direttrice dello studio, l’architetta Doriana Mandrelli appunto.
Sull’onda di questo oggettivo bisogno di riconoscere equità di presenza, creatività, visibilità e rappresentatività professionale, stanno sorgendo un po’ ovunque associazioni che lavorano attivamente per eliminare il gender gap esistente.
Forse la più importante esistente in Italia con uno sguardo internazionale di largo respiro è REBELARCHITETTE il cui scopo statutario è proprio quello di perseguire:
. la sensibilizzazione della società civile e di coloro che operano nel mondo dell’architettura ad una visione inclusiva, intersezionale ed equa della professione.
. la promozione della ricerca e della diffusione del ruolo delle donne nel mondo della progettazione e della costruzione a livello nazionale ed internazionale, combattendo ogni forma di discriminazione.
. la compresenza di azioni di attivismo e di ricerca favorite da collaborazioni internazionali in rete.
D’effetto l’iniziativa presentata dall’associazione nel 2018 in occasione della Biennale di Venezia in cui sono state raccolte e pubblicate 365 biografie di architette operanti in tutto il mondo.
Il risultato è la produzione di un volume digitale ARCHITETTE = WOMEN ARCHITECTS Here We are! che conta 755 pagine, nel quale vengono raccontate le vite professionali e umane di professioniste dell’architettura dall’Ottocento a oggi.
Una sintesi di riferimento per la nuova generazione capace di presentare “modelli di eccellenza al femminile che operano nel mondo dell’architettura a giovani studenti e studentesse, ma anche a giurie, accademici, organizzatori di mostre e giornalisti, per garantire una visione più inclusiva e più equa della professione“.
Le biografie sono state anche postate, giorno dopo giorno, sulla pagina Facebook Architette-Archiwomen.
Dunque la battaglia per rivendicare una “o” prescindibile dal termine indentificante di “architetto” è avviata e non si fermerà a breve.
Ma la questione della prescindibilità dalla “o” è solo considerabile dal punto di vista terminologico o nasconde qualcosa di più complesso?
Sessualità e genere influenzano un progetto o la visione di una città?
La dicotomia che dal 900 si riflette nella discussione tra “forma” e “funzione” può includere il concetto di “genere” in una visione moderna?
E il genere è solo femminile?
SE VUOI CAMBIARE UN UOMO CAMBIA LA SUA CASA
La visione di Paul Beatriz Preciado
Quando per la prima volta, diversi anni fa, provai a introdurre il tema di come la sessualità e il genere, influenzando a mio modo di vedere ogni aspetto dell’esistenza, generassero invitabili ripercussioni anche sull’architettura, sul modo di progettare una città, sul modo di disegnare una fabbrica o un ospedale, sul modo di rispondere alle richieste di una determinata tipologia di committenza, non fu semplice gestire la risposta dei colleghi architetti, sempre rivolta a sottolineare che “un buon progetto è un buon progetto e basta”.
Eppure la storia ci spiega altro a ben vedere.
Esiste a mio avviso una relazione alla quale è impossibile sottrarsi tra i diversi attori del processo architettonico:
il punto di vista del progettistǝ, che inevitabilmente fa i conti con la propria storia, con la propria formazione, con il personale bagaglio di saperi ma anche con la propria esperienza esistenziale (e dunque sessuale, intendendo per sessuale anche l’identità di genere);
il punto di vista del committentǝ, che a sua volta cerca nella realizzazione di un bene il concretizzarsi di una visione personale, dunque anch’essa inevitabilmente condizionata da una visione di genere;
l’assorbimento dell’intervento da parte di chi ne usufruisce, specie se si tratta di spazio pubblico, di tutto ciò che attraversa nel pieno della propria condizione esistenziale, dunque anche della propria sessualità.
Immaginare l’illuminazione di una strada non può prescindere da un concetto di sicurezza: la sicurezza di uno spazio pubblico è anche una questione di pensiero sul genere di chi ne usufruisce, inevitabilmente.
Già l’architettura religiosa, da tempi antichissimi, nel progettare i suoi luoghi ha sempre tenuto conto degli spazi “maschili” e di quelli “femminili”, sia per ciò che riguarda la composizione delle forme sia per quello che riguarda le funzioni, prestando moltissima attenzione al dimensionamento per genere e sesso.
Si pensi ai matronei delle sinagoghe, solo per fare un esempio.
O agli impianti termali, ottomani o romani, concepiti in maniera molto differente in base all’utilizzatorǝ.
Per non dire delle scuole o dei conventi, spesso progettati sulla base della specifica destinazione e sessualità di chi li avrebbe abitati.
Tra i più importanti spunti di riflessione sull’argomento che ho avuto modo di incrociare c’è un volume, edito nel 2011, giunto ora alla sua seconda ristampa, apparso in libreria in Italia con l’editore Fandango, opera del filosofo spagnolo Paul B. Preciado, dal titolo Pornotopia.
Il punto di vista dell’autore è davvero singolare perché parte da un estremo, ovvero un’analisi di come la pornografia contamini e crei una “topia”, una visione architettonica. E in Preciado l’analisi ha la sua origine in un’affermazione netta e distintiva: “se vuoi cambiare un uomo cambia la sua casa”.
Un punto di vista di rottura quello di Preciado, nato donna, Beatriz, e transitato nel mondo maschile con il nome di Paul.
Filosofo e teorico dell’architettura, ha scritto testi chiave di analisi sulla trasformazione del mondo binario, esplorandone molti aspetti anche in territori di difficile approdo.
“…il sesso, il genere e la razza non sono nature, ma costruzioni storiche e politiche. La razza non è un avvenimento epidermico né una verità naturale, e nemmeno un’ontologia della pigmentazione cellulare, ma una tecnologia politica di oppressione. Nondimeno la cultura nera, come la cultura queer o quella trans, esistono in quanto tradizioni culturali e discorsive, oltre che estetiche della resistenza.” (vedi qui)
Per questa ragione quando Preciado, dopo aver affrontato questioni chiave come l’impatto della pornografia nella società capitalista; dato forma ad un manifesto della controcultura queer; aver spaziato dalla direzione di Fondamenta di Kassel all’attuale incarico di filosofo guida del Centre Pompidou di Parigi;, si lancia con un saggio di potente rottura ad analizzare l’immaginario estetico e i riflessi sui codici architettonici che creano una “Pornotopia”.
Il risultato è un sorprendente assemblaggio di curiose intuizioni.
E se il filosofo Michel Foucault nel suo interpretare la sessualità come una chiara espressione di fenomeno di potere si chiede in che modo atti e comportamenti istintuali siano divenuti nel tempo oggetti chiave di una strutturazione sociopolitica, che si esprime in maniera fortissima attraverso il rituale della confessione cristiana8; ecco che Preciado individua nel rapporto tra architettura e sessualità, interconnesso con il controllo economico della società consumistica, un percorso di gestione del potere intrinseco alla definizione del genere e del suo utilizzo nelle gerarchie esistenziali.
Conia così il concetto di pornotopia, che indica un uso particolare dello spazio, un tipo di eterotopia – che Foucault usava per riferirsi a “un altro spazio”, un luogo in cui spazi e concetti “incompatibili”, non correlati alle norme morali, sono collegati e sovrapposti.
La pornotopia è uno spazio pensato, desiderato e progettato per accogliere in tutto il suo potere la forma espressiva della sessualità e del genere.
Uno spazio dove questo enorme costrutto possa essere praticato, vissuto, espresso, durante un periodo storico in cui il capitalismo fa da padrone e che lo stesso autore definisce “farmacopornografico”.
Per questo dedica un intero saggio a Playboy, alla sua Mansion, e soprattutto alle visioni del suo creatore, Hugh Hefner e di come questi abbia sviluppato un immaginario incorporando un’infinita serie di paradigmi architettonici.
La pornotopia è la visione di una sessualità-aziendale che si esprime in club, hotel e residenze, sospesi tra la luce e il buio.
Aree fisiche espressione di universi che sfuggono a regolamenti legali o morali.
Preciado recupera la teoria di Giorgio Agamben sui “luoghi d’eccezione” in cui gli spazi stessi hanno capacità performativa.
Hefner aveva costruito un appartamento che era il personale “luogo d’eccezione” e anche di elezione, dove poter coniugare lavoro e piacere in maniera costantemente dialogante.
Il suo stesso letto, con le sue connessioni multimediali, era una porta sul mondo in un universo di forme e funzioni perennemente ribaltati nel senso e nella determinazione di potere.
Nel suo appartamento tutto rispondeva a rigide gerarchie di genere.
Le funzioni “donna” e “uomo” vivevano in una alchimia devota al solo scopo di generare il potere del piacere.
Perciò Pornotopia è per me un saggio chiave per la connotazione di un’architettura profondamente maschilista, per non definirla machista, che si nutre dell’esplosione del potere dei mass media in una società dominata dalla pornografia come espressione della supremazia del denaro sul corpo e sul desiderio e dalla farmacologia come risultante del dominio e dell’immortalità.
Perciò “se vuoi cambiare un uomo, cambia la sua casa” è un invito ad esprimere attraverso l’architettura il paradigma del sesso come controllo e del piacere come negoziazione.
Elementi che regalano scenari complessi della contemporaneità.
GENERE E SESSUALITÀ
Provare a definire il concetto di “genere” e di “sessualità” vuol dire affrontare un tema è complesso e scivoloso. Oltre che mutevole nel tempo.
Sempre partendo dal cliché secondo cui “una casa è una casa”, se è brutta o bella dipende dalla qualità del processo di creazione della stessa e dalla sua forma e funzione, in tutti i miei anni di studi di architettura prima, di esercizio professionale poi, mi sono sempre trovato davanti ad un muro, liquidato con poca curanza, quando mi sono permesso di obiettare che per ciò che mi riguarda coniugare lo spazio con l’identità del suo abitante o fruitore non è questione indifferente.
E che dunque oltre al concetto di forma e al concetto di funzione andasse analizzato profondamente il concetto di contesto, assunto nella visione più ampia del termine: contesto come espressione di tutto quello che antropologicamente vive intorno a individui che usano e consumano l’architettura e dunque l’abitare.
In questa visione mi ha sempre accompagnato la conoscenza di alcune esperienza sostanziali, specie delle città americane, dove le partizioni territoriali, i “tratti di matita sulle piantine”, per dirla con bernard-marie koltès, sono una realtà del vivere, progettare e disegnare i luoghi non escludendo i corpi.
La nascita dei primi quartieri gay, o delle prime zone ad alta concentrazione migratoria, dissipano in un batter d’occhio l’affermazione che vuole una banale distinzione tra una “bella” o una “brutta” strada o abitazione.
Potrei riportare alle mie considerazioni esperienze e utopie della storia dell’architettura per analizzare come e quanto in termini di visione siano state sottoposte e condizionate dalla espressione di genere tanto degli ideatori, quanto degli interpreti culturali e mediatori di quelle stesse riflessioni.
Ora, per procedere, occorre precisare cosa contenga il concetto di genere per poter circoscrivere gli ambiti della nostra riflessione.
Il termine “genere” nella sua impronta etimologica (dal latino genus) si distingue profondamente dal termine “sesso” che evoca un’impronta esclusivamente binaria, maschile e femminile.
Definire il genere ha a che vedere con l’interpretazione di un modello della propria esistenza, non binaria, non esclusivamente deterministica nell’accezione naturale della derivazione di appartenenza sessuale, non genotipica o fisiologica.
Il concetto di genere affronta un viaggio molto complesso nella individuazione di un ruolo sociale, di un modello di relazione, di un’appartenenza dove l’inclusione non è solo la visione della naturalità di un processo elementare. Un po’ come distinguere il passaggio terminologico femmina/maschio in uomo/donna/altrǝ.
Il genere è figlio di una costruzione sociale, influenzato da una molteplicità di fattori che non si esauriscono nella dicotomia naturale di maschile e femminile. Per questa ragione, essendo espressione di un universo di natura antropologica, non può non fare i conti con ogni passaggio del vivere e del fruire il segno identitario lasciato dalla specie umana sul pianeta, e dunque anche (e forse direi soprattutto) dell’architettura.
Tornando al genere, a questo punto riletto nella sua giusta accezione, ecco che immaginare quanto questo abbia influito e influisca nella percezione e nel disegno delle città e dell’abitare non sia così difficile.
Nelle comunità nere americane così come nei villaggi dell’Alaska o nella foresta amazzonica, o ancora nei quartieri lgbtq delle grandi metropoli ancora oggi, è casa solo il luogo “dove ci si possa sentire al sicuro”.
Sentirsi al sicuro è una questione di condizione sociale, molto vicino alla percezione dell’idea di genere. E qui scatta il termine chiave della mia analisi. Il genere influenza il contesto.
E il contesto è quella chiave che permette di relazionare, nel processo di pensiero sul costruire, il luogo associato al corpo che lo abita.
Il che non vuol certo dire spingersi nella direzione della creazione di ghetti. Tutt’altro.
L’esperienza che intendo indagare appartiene al punto di vista che progettare tenendo conto del genere, quindi del contesto, possa permettere una migliore convivenza in una società liquida, stemperare le differenze e alimentare una buona relazione fra corpi e luoghi.
E’ un concetto certamente complesso, ma le città hanno mille anime.
La visione del centro di Roma, ad esempio, e la percezione del suo tessuto affrontata da una donna di mezza età di buona condizione socioeconomica non può che essere differente dalla percezione che dello stesso identico luogo possiede un giovane immigrato con bassa scolarità e padronanza della lingua. Il luogo è lo stesso, il respiro che restituisce è differente.
Se il concetto di genere torna in auge in un momento storico molto preciso, quello dell’affermazione del femminismo, intorno agli anni 60, è pur vero che esplode nel discorso sulla contemporaneità per fare da sponda ad altre due derive terminologiche che molto hanno a che vedere con una revisione del vivere del nostro tempo: razza e classe.
Come l’architettura e gli studi sulla città e sul territorio abbiano analizzato queste tematiche è la questione: se definire la città della “classe” o della “razza” è piuttosto semplice e intuitivo ed ha un compendio di esperienze, riflessioni e commutazioni molto strutturato, ecco che inserire il genere nella trattazione diventa profondamente innovativo e moderno.
Scrive Joan W. Scoti nel suo saggio Il ”genere”: un’utile categoria di analisi storica qualcosa di sorprendentemente interessante ai fini del nostro studio:
Le analogie con il concetto di classe (e di razza) erano esplicite, e in effetti le specialiste di studi delle donne più politicamente impegnate sostenevano che tutte e tre le categorie erano cruciali per scrivere una nuova storia femminista. Un interesse nei confronti di classi, razze e genere voleva dire innanzitutto impegnarsi per una storia che comprendesse le vicende degli oppressi e un’analisi del significato e della natura della loro oppressione, e in secondo luogo la verifica scientifica del fatto che le sperequazioni operate dal potere sono organizzate lungo almeno tre assi.
La litania di classe, razza e genere suggerisce una parità dei tre termini, ma in realtà non è sempre cosi. Mentre il concetto di “classe”, nella maggior parte dei casi, si basa sulla teoria, elaborata da Marx (e da allora rielaborata più volte), di determinazione economica e mutazione storica, “razza” e “genere” non comportano associazioni analoghe. Non esiste altrettanta chiarezza o coerenza nei confronti di razza e di genere. Nel caso di genere, l’uso ha coinvolto una serie di posizioni teoretiche, nonché di riferimenti puramente descrittivi ai rapporti tra i sessi. Le storiche femministe, che, come la maggior parte dei loro colleghi, si sentono maggiormente a proprio agio con la descrizione che con la teoria; si sono tuttavia progressivamente sforzate di elaborare nuove definizioni teoriche. E questo almeno per due ragioni. Innanzitutto, il proliferare di studi dedicati alla storia delle donne sembra richiedere l’elaborazione di una prospettiva sintetizzante in grado di spiegare le continuità e le discontinuità e di dar conto sia del persistere di disuguaglianze sia della presenza di esperienze sociali radicalmente diverse. Nel suo uso più recente e più semplice, “genere” è sinonimo di “donne”.
Ora se il percorso sintattico di associazione del termine genere al termine donna sembra aver perso la sua portata, nei nostri anni il termine sostituito con la traduzione inglese “gender” è diventato spesso sinonimo di alterità sessuale, di definitiva uscita dal binarismo naturale maschile-femminile. Dunque progettare oggi una casa, una città, ma anche un ospedale, impone a mio avviso una importante riflessione sul genere.
Penso, solo per fare un esempio, a quali possano essere i bisogni di una persona transgender in un ospedale.
A come gestirne la salute fisica accanto a quella psichica ed emotiva.
Mi è capitato di vedere con i miei occhi donne in transizione ricoverate in reparti maschili, con tutto ciò che ne conseguiva in termini di complessità e disagio.
Se nel 700 gli impianti ospedalieri barocchi trovarono la loro forza anche nella riflessione sul rapporto luce e malattia; se le scuole dell’ 800 vissero fortemente della dualità maschile – femminile; se il 900 fu il secolo della riflessione imprescindibile tra forma e funzione, oggi azzardando vorrei dire che siamo nel millennio in cui forma e funzione devono sposare il genere attraverso un’analisi minuziosa dei contesti.
UN CASO: FOLSOM STREET
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Non so cosa succederebbe se in una centralissima strada italiana qualcuno osasse mettere in scena anche solo una minima parte dell’evento più cool della California, capace di attrarre sul suo territorio mezzo milione di persone ogni anno per celebrare il fetish e la pelle.
Folsom street è una delle direttici del centro di San Francisco, California, Usa. Per una settimana alla fine di settembre, dal 1984, si trasforma in un enorme mercato di prodotti “leather” ma soprattutto è invaso da centinaia di migliaia di persone che vestite in modo certamente particolare abitano l’importante arteria di una delle città simbolo degli Stati Uniti sottoponendo l’intera area ad una modifica indiscutibile del sistema città.
Certamente è un evento temporaneo. Certamente anche nelle nostre città è possibile assistere a cortei e a parate variopinte e multicolor.
Ma… l’esperienza del Folsom, che dal 2003 ha luogo anche in Europa, a Berlino, sotto il marchio di Folsom Europe, è un modo indiscutibilmente anomalo per restituire un’idea di città che è molto distante da quella a cui siamo abituati.
Libera espressione in libero spazio, questo sembra essere lo slogan di riferimento.
Ogni espressione del desiderio umano è consentita e legittimata, ogni angolo della città è usato per esporre corpi e emozioni fuori da un sistema convenzionale e progettuale convenzionalmente inteso.
Il Folsom street fear impone e oppone un sistema di lettura diverso del costruito e dello spazio.
Fa esplodere la necessità di includere nel dualismo forma e funzione il concetto di contesto.
Esistono in Folsom street negozi, residenze, servizi… esiste una strada primaria, dotata di illuminazione, attraversamenti, parcheggi.
Ma esiste anche il fatto che quell’area genera, almeno per un breve periodo dell’anno, un “contesto” assolutamente unico in cui le forme e i luoghi sono pienamente condizionati dall’evento che ospitano.
Su quella strada è inevitabilmente attivo uno dei più importanti mercati immobiliari turistici americani.
Centinaia di suites proposte, moltissime arredate e progettate secondo i principi esposti da Paul Beatriz Preciado nel suo Pornotopia.
Centinaia di appartamenti concepiti per un contesto che certamente non è la residenza familiare borghese convivono in piena armonia con abitazioni di pregio per la tradizionale famiglia americana.
Una particolare circostanza in cui cadono anche le tradizionali categorie di classe e razza, che hanno influenzato tanta architettura nella storia, per lasciar spazio ad un concetto di città dove quello che si potrebbe chiamare “degrado” è invece un “contesto” capace di generare reddito e nuove visioni. Classe e razze cadono perché il mondo fetish non conosce discriminazioni. La questione di genere, quando travalica i confini sessuali binari, diventa liquida e ammette al suo interno ogni risvolto possibile senza chiedersi perché. Il risultato economico del quartiere è fenomenale.
Prezzi al mq delle case astronomici, sia in caso di acquisto che di affitto.
Ecco come un annuncio immobiliare descrive il “contesto” dell’edificio posto in affitto:
Neighborhood
Life in the Bernal Heights neighborhood of San Francisco centers around the area’s many parks, which provide space for community events, recreation, and more. This residential neighborhood keeps mostly to itself, with neighbors enjoying their spectacular views and access to a weekly farmer’s market and flea market. Modern apartments give way to incredible homes in the classic San Francisco style.
The Fiesta on the Hill closes down streets every fall, and local filmmakers get to show off their latest work at the Bernal Heights Outdoor Cinema, which sets up for a couple of months a year. During September take place also the Folsom Street Fair. The more daring in the neighborhood participate in the yearly San Francisco Illegal Soap Box Derby, taking advantage of the steep hills to enjoy a true adventure as they race for the prize.
Non a caso Berlino, lanciando il suo Folsom Europe, a metà settembre, immediatamente prima dell’appuntamento degli Stati Uniti, ha sostanzialmente ritenuto un buon affare riprodurre uno spazio di “visibilità” per un mondo, quello bdsm, altrimenti oscuro, confinato nelle pieghe e misconosciuto.
Gli effetti sono stati molto simili a quelli degli Stati Uniti.
Mercato immobiliare alle stelle, gentrificazione che ha prodotto una mixité di popolazione tutt’altro che omogenea, un contesto innovativo anche nella produzione di nuove forme e funzioni.
Cosa e come incidono queste espressioni umane nella fruizione dello spazio, pubblico e privato?
A mio modo di vedere in maniera inequivocabile.
Al pari di quanto abbiano inciso per tutto il Novecento le creazioni dei quartieri operai, o quelli per il rientro dei coloni voluti dal Fascimo, solo per citare due esempi.
Solo che in quelle forme il pensiero sull’architettura e sulla città ha trovato la sua pace circoscrivendo il progetto ai paradigmi di classe e razza che ben conosce e frequenta.
Ci si occupa di progettare quartieri borghesi, che passano abitare certe categorie di persone; ci si occupa di progettare quartieri popolari…
Ora da qualche parte, nel mondo, si cominciano a progettare quartieri per “sentirsi bene” e per “sentirsi a casa”.
E la cosa più straordinaria è che a comprare case, ad esempio, in prossimità di Folsom Street non sono un manipolo di depravati ma famiglie, artisti, professionisti, attratti dalla sicurezza sociale che un “contesto” amico di una società liquida propone.
CHIUDERE IL CERCHIO, LA PROGETTAZIONE CIRCOLARE
La parola “contesto” comincia ad apparire sulla scena del grande mondo della progettazione.
Mentre si discute di sostenibilità dei processi, ecco farsi strada nel “Green deal europeo” il concetto di contesto.
Ovvero dove avviene il processo di cambiamento? Quali strade percorre? Come si coniuga la produzione architettonica con la circolarità sostenibile? Se nella progettazione circolare oggi si ragiona solo in termini di “criteri ambientali minimi”, o meglio cam, di certificazioni leeds e iso, di concetti come “durabilità”, “sostenibilità” e “adattabilità”, forse occorre introdurre anche un altro principio che non è possibile escludere dal processo del costruire futuro: la “felicità dell’abitare”.
Il “diritto alla felicità” fu lo slogan portante del movimento del 77 in Italia. Una generazione che puntò il dito sul benessere primario dell’individuo e da lì elaborò una piattaforma di rivendicazioni tutte improntate al benessere sociale e personale.
Anni in cui anche l’architettura perseguiva gioiosamente un diritto alla comodità, alla bellezza, al design.
Da allora abbiamo vissuto e viviamo molti movimenti che rivendicano una svariata quantità di diritti, “matrimonio egualitario”, “lavoro”, “giustizia”.
Ma rivendicare il diritto alla felicità è demodé.
Una popolazione infelice non può costruire benessere nei suoi spazi.
Potrà anche occuparsi di sostenibilità, durabilità, adattabilità ma finché non sommerà anche la richiesta di benessere nel ciclo della progettazione circolare non potrà a mio modo di vedere arrivare ai risultati sperati.
Per questo occorre ripartire dalla nomenclatura: non è utile avere una visione monolitica e monocratica.
Non ci serve avere l’ARCHITETTO ma gli architetti, donne, uomini, personalità liquide che sappiano porre il punto sui più svariati bisogni.
Oggi ancora si interpreta la particolarità di una donna architetta nel solo fatto che presumibilmente si occuperà di più di spazi verdi e di bambini.
E ci risiamo col luogo comune e col maschilismo imperante.
Basti pensare che una delle più celebri archistar è stata protagonista della rivoluzione di un materiale duro e maschile come il cemento armato, Zaha Hadid, altro che giardini e bambini.
Riflettere sulla progettazione, partendo dal genere e dalle sessualità, vuol dire che indifferentemente il progettistǝ deve compiere una processo che metta assieme lo sguardo circolare dell’architettura includendo il benessere e la felicità dell’abitare nel risultato.
Solo così faremo veramente del bene al pianeta e alla società, costruendo spazi dove la “pianta libera” di Le Corbusier possa trovarsi davanti una ridefinizione della forma e della funzione che tenga conto del contesto.
E si potrà lavorare su uno schema generico che includa la possibilità, amatissima dall’architettura, di mettere a fuoco il “particolare”, il “dettaglio”. Quello dell’attico dello scapolo di Preciado o della residenza familiare, poco importa, ma il contenuto sarà frutto di un’accorta analisi del contesto volta a gestire la contemporaneità delle differenze.
Così come un servizio pubblico disegnato a partire dai bisogni di una persona trans non potrà non tenere conto di tutte le svariate esigenze di una enorme quantità di differenze, con un’ottica inclusiva e non divisiva.
Questa riflessione cominciò ad appartenermi in un bagno pubblico spagnolo quando vidi per la prima volta sulla porta una scritta: TODOS.
Una visione liquida dell’architettura pronta per il futuro.